L’odore assordante del bianco

•febbraio 11, 2020 • Lascia un commento
l'odore assordante del bianco, Teatro Gesualdo Avellino.

Amate i thriller psicologici? Siete disposti a sperimentarne una visione teatrale? Siete pronti ad assistere ad uno di essi ma senza voci fuori campo, inquadrature hitchcockiane e americanate varie?

Andate a vedere “L’odore assordante del bianco”, di Stefano Massini, beccatosi, per quest’opera, un bel Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli” nel 2005 come miglior autore under 30.

Questa non è una recensione, è piuttosto il consiglio di una zia cui piace il teatro, che ha grattato l’abbonamento di un’altra zia cui piace il teatro, ritrovatasi catapultata nel 1889 a Saint-Paul-de-Manson, nell’ospedale psichia

trico, precisamente, dove il sipario si apre su di un corpulento Van Gogh in atto di rotolare inesorabilmente verso il proscenio, costretto al ricovero da una mozione popolare dopo il famoso episodio del taglio dell’orecchio.

Subito fa ingresso il fratello in visita, anzi no: è un’altra allucinazione, smascherata sadicamente da due infermieri in un secondo momento, nonostante Theo avesse giurato a Vincent di essere reale. Si tratta solo del primo dei trucchetti giocati da un autore quasi perfido, privo di scrupoli nel tormentare il protagonista di fronte agli spettatori impotenti.

Luci, prospettive, ambientazione scarna, sonoro, tutto sublimemente orchestrato dalla regia di Alessandro Maggi: chirurgica, asettica, funzionale alla commedia rendendola, se possibile, ancora più efficace.

Del tutto avulso, ma comunque incastrato magistralmente nella trama, l’incontro con il Dottor Vernon Lazàre, Léon, Baptiste, una specie di mediocre capo-reparto, un Caporale, come lo avrebbe definito Totò, del quale il pittore riesce a tracciare un ritratto spietato con del carbone (definendolo egli stesso un obbrobrio, in omaggio al personaggio) e che rischia anche di finire ammazzato in un’esilarante moviola, se non fosse, appunto, per l’intervento del suo superiore.

Dopo più di metà dello spettacolo arriva quindi la luce: il direttore della struttura, appunto, interpretato da Roberto Biscione, che decide di salvare Van Gogh dall’internamento definitivo, sperimentando l’ipnosi e la pittura stessa come metodi di analisi e possibilmente di riabilitazione, un’altra ansiogena tappa del racconto, che ripercorre a ritroso il tragitto dal primo trauma infantile alle battute iniziali del dramma.

Uno script geniale, un sollievo delizioso per i cuori di coloro che possono inaspettatamente assistere alla speranza che cerca una strada per avverarsi, tant’è che, in seguito, Van Gogh potrà effettivamente lasciare il nosocomio. Provato, malconcio, ancora disorientato ma prode sopravvissuto, un po’ come chi esce dal locale al termine dell’esibizione.

Alessandro Preziosi? Ah sì, certo. Ottimo interprete e decisamente bello: bravo soprattutto a far dimenticare che (ammettiamolo) uno dei motivi per aver scelto questo spettacolo era lui. Produttore: TSA – Teatro Stabile d’Abruzzo, stima a vita per i fratelli abruzzesi.

Carmelo vive con noi

•febbraio 10, 2018 • Lascia un commento

volevo-esser-imbriani-locandinaUna sequenza di colpi, lo definirei così, pur se fuori dalla metafora calcistica che è evidentemente il mondo originario: una raffica di buffetti partiti per essere carezze forzate e finiti col diventare strette al cuore che inibiscono la più remota possibilità di non restare coinvolti.

Un docu-film, direbbe chi sa parlare di cinema, o più direttamente un intreccio tra fiction e interviste che con semplicità e discrezione raccontano una storia vera, quella di un uomo che prima di essere un campione sul campo lo era nella vita reale. Una persona che fa bagnare gli occhi di chi lo ricorda, che condivideva i suoi entusiasmi con gli amici, che infuocava gli spalti senza montarsi la testa dominando la belva del successo e prevenendo le disillusioni con la sola forza dell’umiltà e del disincanto.

Il corto nasce da un’idea di Alberto Scarino che trascina il socio Umberto Rinaldi (Hitch2, ovvero Occhio a quei due – la vendetta) nell’avventuroso cine-racconto di Carmelo Imbriani con l’unica forza persuasiva efficace: l’impellenza di restituirlo al mondo, l’urgenza di diffonderne i valori, l’impossibilità di tenere per sé la gioia di aver scovato un tesoro nell’El dorado degli sport “principali”.

Umberto e Giovanni Bocchino iniziano le riprese, raccolgono le testimonianze come novelli investigatori in un mare di indizi alla ricerca non di un colpevole quanto di un messaggio, che doveva essere una sintesi ma dilaga come una macchia d’olio nell’incontenibilità. E così incontrano amici, fan, colleghi, giornalisti, alcuni dei suoi allenatori, preparatori, i medici, inseguendo Carmelo nel suo tenace itinerario privilegiato: il prato verde verso la porta avversaria. L’intercalare narrativo è sorretto da due intensi amici attori che interpretano ruoli secondari con convinzione, loro e nostra: Peppe Barile e il mitico Nello Mascia.

Penso che l’unica volta che ho pianto di più in un cinema è stato quando ho visto Voglia di tenerezza, che ve lo dico a fare? Qui saprete sempre dove vederlo, se ci andrete aiuterete la costruzione di un campo di calcio in Africa. Portatevi i Kleenex e non giocate a fare i duri, non vi conviene: più verrete corazzati, prima vi liquefarete in un lago di gocciole tremanti. E non conta neanche il non essere appassionati di calcio. Lo sa bene il regista che, pur nutrendo vaghe simpatie per la squadra italiana più blasonata (quella dei colori del bene e del male, tanto per intenderci) non segue affatto i campionati e non sa neanche quando gioca la sua preferita. Però ci ha fatto commuovere ed emozionare come solo un obiettivo riservato e ben puntato sa fare.

E non dimenticate di sostenere Imbriani non mollare.

#FoodFest2017

•marzo 8, 2017 • 5 commenti

 

festival giornalismo agroalimentare to feb 17 (2)Appena alla seconda edizione e già così maturo, sia in termini di argomenti sia per qualità degli interventi. Una selezione ampia, con scelte decise di posizionamento ed equa rappresentatività alle diverse esperienze.

Senza contare che l’ultimo giorno ci hanno portato a fare un giro perlustrativo per le botteghe dei Maestri del Gusto, in un folle twist dei sensi. So solo che a un certo punto nella pasticceria di Gertosio stavo svenendo. Ma andiamo avanti.

Un Festival buono pulito e giusto, per dirla alla Slow Food, uno dei patrocinanti. L’ho vissuto in real time anche su twitter, dove mi fiondo sempre per arruolarmi tra i partecipanti qualificati agli eventi, contribuendo a celebrarli o hashtaggarli più o meno benevolmente.

Ho preferito di gran lunga i panel dell’Auditorium Vivaldi, per dirla tutta (l’altra location, sempre all’interno della Biblioteca Nazionale di Torino, era la Sala Mostra), mi è sembrato fossero meglio assortiti e impegnati su argomenti più pregnanti. Dacché, tornandomene a casa sinceramente arricchita dal punto di vista professionale, rifletto su queste poche ma rivitalizzanti nuove certezze:

  1. Il documentario emozionale e la comunità scientifica si guardano con reciproco sospetto e fanno bene. #Hunger4bees è arrivato fino in India per raccontare attraverso le giornaliste Adelina Zerlenga e Monica Pelliccia che, dove le contadine si servono di apicoltrici per l’impollinazione, la produttività può crescere anche fino al 70%, solo che hanno infarcito il dato di tante belle testimonianze contro quei cattivoni dei pesticidi e altre sostanze di “aiuto” alla coltivazione intensiva che gli scienziati presenti si sono precipitati a rettificare, fonti alla mano, adducendo che non è dimostrato che ci uccideranno tutti. Bisogna sentire entrambe le campane.

  2. Gli organismi di tutela della salute pubblica faticano come matti ma non sanno farlo capire, e sono veramente alle prime armi con la comunicazione di numeri e allarmi alimentari.

  3. La divulgazione scientifica lascia il passo alla disinformazione perché non si interroga sui benefici che ricadrebbero sulla collettività se le nuove scoperte fossero diffuse da chi le ha fatte. Largo allora ai bufalari, sui quali vigila ormai magistralmente bufale.net, soprattutto grazie a Luca Mastinu, di cui confesso essermi follemente innamorata e che non verrà mai a saperlo ma ciò non intaccherà minimamente la mia devozione nei suo riguardi. Ma andiamo avanti.

  4. C’è gente che si fa pagare 3 Euro ad articolo. Da tempo ormai denuncio la “cinesizzazione” del lavoro intellettuale, imprevedibile deriva della globalizzazione, che agli albori degli anni novanta ci aveva paventato un futuro fulgido di ingegneri occidentali e sfruttamento minorile in oriente, regalandoci invece la percezione che se un capo di Alta Moda costa 20 Euro consegnato dal Far East, figuriamoci un’opera d’ingegno. Ma andiamo avanti.

  5. Il volume d’affari delle agromafie è misurabile in valore e tracciabile in attività. L’agropirateria (di cui i laureati in Economia e Commercio come me hanno iniziato a dissertare nel 2005) non è ancora reato, in compenso esiste una proposta di legge ferma a Palazzo Chigi da diversi… mesi. A tal proposito va detto che la tipicità (di cui appunto argomentavo nella mia tesi) resterà soltanto uno slogan fintantoché sarà appannaggio delle bocche larghe del commercio (di B2B) internazionale.

  6. Esistono blog dal nome col sound tipo “tacco 12 e pentolame” (grazie Visintin) e i giornalisti enogastronomici non sono sanguisughe inopportune ma un clan prezzolato dalle lobby del fighettismo di settore.

  7. L’e-commerce dell’agroalimentare è una start up in perenne rigenerazione come nella migliore delle tradizioni lean. E se hai capito, mo’ traducilo. La verità è che on line si vende solo quello che ha un valore aggiunto in termini di servizio. Se si mangia facendo risparmiare tempo e fatica tanto meglio. E qui il mio cuore ha vacillato, dividendosi tra Mastinu e Fabrizio Zerbini dell’ESCP Europe (main partner).

  8. L’olio di palma è un surrogato del burro, e anche quello di girasole e tutti i grassi che con la scusa di avere un peso specifico più leggero vi vengono rifilati per più salutari. Li mettono perché costano meno e si conservano di più perché alterati chimicamente: fatevene una ragione e scegliete secondo coscienza ma anche secondo tasca.

  9. L’informazione ha un costo, se la cerchi a buon mercato vedi conclusioni del punto precedente. Sei un vero giornalista se verifichi le fonti. Sei una vera notizia se duri nel tempo e non ti smontano con una controinformazione più cazzuta di te.

  10. Vegano o amante della carne è una libera scelta personale, non un fronte di guerra. Grandi segnali di distensione in questo senso, al Festival.

Toh, ne è uscito un decalogo. Giuro che non è stato voluto. Dopotutto sono una giornalista, certe perversioni sono professionali. Credo che chiederò l’assistenza sanitaria. Ah già: sono una freelancer, io non ce l’ho l’assistenza sanitaria.

A proposito: voi lo sapevate che i torinesi chiamano Piazza Carlo Emanuele II “Piazza Carlina” a causa delle effeminate sembianze dell’omonimo re? Una chicca a degna conclusione dell’ultima volta in vita mia, lo giuro, che metterò piede in quella città. Ma andiamo avanti.

Jeeg non è mai un’emozione da poco

•marzo 23, 2016 • Lascia un commento

JeegPremessa: quando decido di andare a vedere un film, cerco sempre di saperne il meno possibile. È un vizio che mi porto dietro per essere libera da pregiudizi e convenzioni, come si faceva un tempo d’altronde, quando non esistevano i teaser e la visione era sempre una scommessa.

Passerò alla storia insieme a mio fratello, forse mi ripeto, per essere stata una dei due che alla proiezione del secondo Terminator nel Cinema Umberto di Avellino, gridarono “Oddio! Ma lui fai il buono!!!” quando Schwarznegger uscì dall’ascensore giusto in tempo per salvare Sarah Connor. E ho detto tutto.

Quindi: c’era una volta un film con l’attrice di Juno che aiuta un supereroe senza poteri a farsi giustizia da solo. Ecco, se non avessi visto già quello e capolavori come Watchmen che mettono seriamente in discussione la figura del guardiano del bene, direi che Lo chiamavano Jeeg Robot è bellissimo e originale. E se le scene dei combattimenti non fossero state scopiazzate da Matrix, anche di più. Tu mi dirai: era meglio non mettercele? È vero: hanno fatto scuola, ma anche basta. Per togliermi la curiosità più grande, voglio dire: se fossi una giornalista pagata per fare domande intelligenti durante le promozioni dei film, avrei chiesto da dove nasce il grottesco accostamento tra il cupo protagonista formato gigante buono, dall’aspetto sprucidamente gradevole e ruspantello, e la tragicomica follia del suo antagonista, così credibile da sembrare veramente capace di far sbranare il suo migliore amico dai rottweiler e andarsene tranquillo al night per interpretare “Un’emozione da poco” vestito come il Joker di Batman Forever.

Uno dei vantaggi delle “recensioni” a posteriori, libere e non prezzolate è che non bisogna temere di spoilerare un film ormai fuori dalle sale e, diciamolo, se non l’avete visto vi siete persi un gioiellino.

E non solo perché, a differenza dell’amico di Juno, Santamaria è bono e acquista veri superpoteri dopo aver bevuto veleno. Tra l’altro, detto fuori dai denti, personalmente manco come belloccio gli avrei dato cento lire, potendo vantare di aver saputo schivare tutte le fiction e i film che lo avevano visto impegnato. Ma quest’opera di Mainetti ci restituisce il Claudiotto nazionale in versione decisamente abile, aiutato nella fotografia a sottolineare uno sguardo intenso (Stanis La Rochelle lo definirebbe forse un po’ troppo italiano) che però non ne ha intaccato minimamente l’attitudine e la capacità di adattarsi, anche fisicamente, al ruolo. Quasi non sfigura di fronte ad un ispiratissimo Marinelli, che per quanto abbia davanti una (speriamo per lui) fulgida carriera con ulteriori margini di miglioramento, ha dato prova di un’autentica dotazione di solide basi di recitazione.

Ecco perché, quando Jeeg si innamora, non siamo state solo io e le mie colleghe femminucce ad intenerirci in sala. E non avrò paura di aggiungere una nota emotiva che ha arricchito lo spettacolo: quelle occhiatine complici e un po’ atterrite tra noi pupette quando distoglievamo lo sguardo dallo schermo nei passaggi trucidi.  A proposito: ditemi quale film italiano ha saputo mai farvi inorridire con un primo piano su un piede sfellato da un’ascia, ridere per la reazione della fidanzata (- Però, amore mio, quando ti trasformi mettitele un paio di scarpe meglio, un supereroe con le scarpe di camoscio non si po’ guarda’ – dovrebbe rimanere negli annali delle battute italiane) ed emozionarvi nella scena successiva in cui lui la porta al Luna Park, che poi è giorno, allora forse bisognava chiamarlo Sole Park, e spinge la ruota panoramica per portare la sua tazzina più in alto di tutte… Forza, ditemelo.

Oddio, è vero anche che gli ho dato fiducia solo sulla spinta dell’annuncio di un nerd radiofonico che ascolto sempre, con la speranza che mi renda più simpatici i nerd, anche quelli radiofonici. Non ho ancora capito se devo ringraziarlo o riservargli lo stesso trattamento che subisce la camorrista verso la fine, nella scena che saprà farvi scoprire il lato più prossimo della vostra anima sadica.

Cose che voglio dimenticare: il twister buonista e affrettato, il solito dannatissimo pretesto della morte di lei per incupire ancor di più il già redento cuore di lui, il fatto che il cattivo muore, risorge e poi muore un’altra volta e qualche altro dettaglio, insomma: nessuna sceneggiatura è perfetta, soprattutto questa.

Motivi per cui sono contenta? Potermi compiacere di un film italiano riuscito, una regia cazzuta, col pretesto di una colonna sonora quasi eccezionale, dimostrando a me stessa, inoltre, che è possibile per  una donna recarsi fisicamente da sola al cinematografo per guardare un film del Genere. Che sia poi pulp, fantastico, hardcore o quant’altro, fate voi.

MART delle mie brame

•febbraio 9, 2016 • Lascia un commento

Mart di Rovereto: padiglione d'ingresso.

La prima volta che ho visto fotografare un quadro col cellulare è stato all’Ermitage di San Pietroburgo. Finito l’evento che organizzava la mia società, con 39 di febbre e completamente afona, a 15 minuti dalla chiusura, riuscii ad entrare ed interpretare indicazioni in cirillico verso Monet e compagni, che ammirai per la seconda volta dopo Roma, anni prima. E feci appena in tempo a raggiungere Lo stagno. E come sempre davanti a un suo dipinto, piansi. Fu lì che sentii il click con il quale una giapponesina si immortalava nell’immortalità di uno dei MIEI quadri. Inorridii.

Non perdo mai occasione: quando ho una fiera, appuntamenti di lavoro, una trasferta, ci infilo sempre un’esposizione lì vicino. È così che ho potuto vedere Escher, Frida, Mirò e una miriade di altri. Poi c’è Rovereto, col suo Mart. Lessi dell’inaugurazione su un quotidiano, La Repubblica, mi pare. Ero giovane e capricciosa, nonché una discreta frusciatrice di ciglia. Il mio allora accompagnatore rispolverò la sua fiammante Mercedes e in un battibaleno ci ritrovammo sull’Autostrada del Brennero che mi condusse al tempio delle rocambolesche avventure figurative e, che dire, vi ci passai dentro una giornata intera. L’altare di Depero era finalmente stato elevato: fagocitai ogni cartolina, ogni stampa, ogni tubo, ogni simulacro e non uscii prima di essermi assicurata di aver incisa in corpo anche la forma dell’ultimo interruttore della luce.

Ci sono tornata giorni fa, ripromettendomi che ne avrei ricambiato l’accoglienza seppur con un breve post (che nelle intenzioni avrebbe voluto essere più stringato e focalizzato, arduo compito per una bipolare), un articolo nel quale avrei tentato di riportare la potenza affrescante del Realismo (traccia che ho quindi cominciato a trascinarmi dietro per recuperare quello che la scuola non ha saputo in nessun modo insegnarmi di un fondamentale periodo artistico e letterario dell’Ottocento) nella mostra di Courbet e dei suoi seducenti colleghi trentini (uno su tutti Bartolomeo Bezzi) così come la destabilizzante visione dell’attualità di Beppe Devalle, ma soprattutto le collezioni, le collezioni…
Chi l’avrebbe mai detto che un giorno avrei potuto avvicinarmi ad un quadro futurista senza rigurgitare al pensiero di Mussolini o della misoginia permeante già dal momento della stesura del Manifesto? Avveniristico e sconcertante, sovvertitore e a suo modo reazionario, misconosciuto per colpa del blasonato Marinetti, il Futurismo mi ha finalmente colta in un momento di debolezza, regalandomi la rivelazione che l’emozione può essere anche altro che un’”Impression”.
Intanto un selfie me lo sono tirato anch’io, tie’, vergognandomi come una ladra. Col cavolo, che lo farò vedere a qualcuno. In primo piano io, con la solita faccia gonfiata dagli automatismi digitali della fotocamera, sul retro due manichini allestiti da de Chirico. Quante cose NON si possono capire del metafisico Giorgio non avendone mai visto un quadro. La sua ironia, l’assoluta distanza da parametri di misurazione di ogni tipo di dimensione, l’abilità nelle crasi tra passato e presente, la sua dissacrante sacralità.

Non so e non saprò mai quante cose ho tralasciato di raccontare tra gli “oltre 20.000 capolavori” del mio museo preferito, non sono né una critica né tantomeno un’esperta d’arte. Quanti nomi illustri mi sarò lasciata sfuggire, quante cose dovrò tornare a conoscere. Ma lo farò, certo che lo farò.
Per cui mi sento di dirvi: armatevi di curiosità e, amanti o meno dell’arte, soprattutto quella contemporanea, andateci anche voi. È ergonomico e bello, grande e caldo, incredibilmente vicino, se solo lo si vuole. Vi farà sentire che è vero, che in Europa e nel Mondo ci siamo anche noi. Sarà il vostro rimedio infallibile contro la fobia da declino moderno.

Gli agnelli feroci e l’ineffabile arte di gestire il rifiuto

•gennaio 4, 2016 • Lascia un commento

prioritiesEsempi di motti sull’amor proprio, che tendenzialmente fungono solo da magra consolazione:
– Dio ti ama anche se sei un peccatore;
– nessuno potrà farti sentire inferiore senza il tuo consenso;
– chi non mi vuole non mi merita
– e (il mio preferito): perché io valgo.

Dicono che sia una prerogativa tutta femminile, eppure nel variegato novero delle mie esperienze ho potuto appurare che qualche gentiluomo non si esime dalla pratica. Personalmente, è una vita che combatto contro la paura del rifiuto. Senza addentrarmi nel ginepraio delle possibili cause patologiche del mio disagio, dirò che ho provato a rifuggirla sperando che ogni volta fosse l’ultima ma ho sempre avuto torto. Le persone motivate in modo esistenziale dall’approvazione altrui, come lo sono io, godono di un complimento o di un’attenzione come fosse una botta di coca, sprofondando poi nei baratri dei naturali tempi morti che separano un apprezzamento dal successivo.

È così che si vaga raminghi nei boschi dell’autocommiserazione, spostandosi da un albero all’altro esclusivamente tramite le liane della considerazione degli altri come incazzatissimi baroni rampanti, impauriti dall’eventualità di cadere al suolo del faccia a faccia con se stessi e odiando quello che si potrebbe vedere.

C’è di buono che con l’età si impara ad accettarsi, quasi sempre, e che vivaddio cominci a stimarti, nonché a sentire l’esigenza di un coming out. Così, proprio quando la calvizie precoce incede e quella bella chiappa soda, di cui tanto ti vantavi, dà i primi segni di cedimento trasferendo tutta l’energia alle sinapsi che finora avevano lavorato solo per farti notare i tuoi limiti, finalmente, un po’ di sano cinismo affiora e ti ritrovi a prenderla più sportivamente, domandandoti perché mai, ad ogni nuovo rifiuto, uno debba rammaricarsene tanto. Dopotutto, è nelle facoltà di ciascuno scegliere cosa gli piace e cosa no, ciò che lo fa stare bene e ciò che, al contrario, gli dà noia.

Io stessa, mi sono detta, ho rifiutato. Ho rifiutato (stupidamente) i voti agli esami credendo di poter prendere di più; ho rifiutato proposte di lavoro, convinta com’ero che per certe cose non ero portata (ed è per questo che non mi farò mai i soldi), ho rifiutato l’amore, quando credevo di non meritarlo o molto più semplicemente perché certe cose mi stavano strette (nei casi di stronzi accertati, invece, la mia reazione è stata piuttosto quella di alzare ancora di più l’asticella, dove amebe e pulci, per quanto tenaci, non possono arrivare a saltare)… Questo non vuol dire che non apprezzassi quel che mi era stato offerto, anzi, ho sempre voluto rivendicare, però, il mio sacrosanto diritto a declinare, senza neanche badare a farlo con gentilezza, adesso che ci penso.

Ma quando è toccato a me, di essere rifiutata, ho sprecato lungo e prezioso tempo a leccarmi le ferite, senza preoccuparmi tanto dell’oggetto del desiderio, quanto rimpiangendo di non potermi sentire importante. E allora ho lasciato che si brucasse nel mio prato segreto, rincorso le illusioni, sponsorizzato e promosso me stessa come uno shampoo, rendendomi conto troppo tardi che credevo di pubblicizzare un’essenza preziosa e invece venivo percepita come un anti-pidocchi a buon mercato.

Quindi è tutta una questione di educazione al rifiuto, oltre evidentemente che di educazione nel rifiuto, perché al rifiuto, anche più d’uno, in serie, piccolo o grande che sia, con strascichi o meno, vendicativo o incosciente, si può sopravvivere: è questa la notizia.

Se si potesse apprendere come una materia scolastica, innanzitutto che non bisogna prenderla sul personale (questo, in generale, ci vorrebbe), e poi che non necessariamente è una perdita di opportunità, potendosi piuttosto rivelare un’occasione di aspirare al nuovo, all’inatteso, all’imprevedibile, ecco, del cui spauracchio ci trasciniamo atavicamente il timore, in quanto assenza di certezze; se veramente ci fosse un libro, un maestro, una scuola dell’arte di gestire il rifiuto, chissà quante delusioni e offese sconclusionate potremmo risparmiarci nella scontata, banale, ovvia e normale alternanza tra le vittorie e le sconfitte relazionali della vita.

Il “no, grazie” dell’altro potrebbe diventare uno di quei comandamenti che si studiano al catechismo, un segnale stradale dei quiz di scuolaguida, un cartello da apporre negli ormai sparuti luoghi di ritrovo reale oppure un credito da acquisire su Second Life, un’emoji con cui personalizzare il profilo social.

A valle di tutte le elucubrazioni di cui vado dissertando, sto imparando a chiedere permesso prima di entrare nelle vite degli altri. Lo sforzo è di evitare di incastrarli in uno di quei magheggi da ricatto psicologico, il quale, tra l’altro, in genere produce proprio l’effetto opposto di far dileguare colui o colei che bramiamo, con tutte le sue grazie. Non si dovrebbe mai costringere nessuno a stare con noi, eppure la mente umana sa inventare astute trame tragiche, di cui il malcapitato co-protagonista è talvolta complice inconsapevole, talaltra accondiscendente oggetto di scelta. Magari per tutta la vita. E se invece si lascia andare qualcuno? Chi mai saprà spiegare se era così che doveva andare o se, in fondo, ne sarebbe valsa la pena?

Ne ho conosciute di persone capaci di voltarsi dopo aver fatto spallucce e ricominciare come se niente fosse. Ne ho sempre invidiato la superficialità e, in fin dei conti, la libertà. Quella libertà che ho preteso per me stessa dimenticando che avrei dovuto rispettarla anche in chi non ha voluto far parte della mia vita, per lo meno non alle condizioni che dettavo io, e devo fare ammenda, chiedendo scusa. Scusa per tutte le volte che ho fatto sentire obbligato qualcuno a compatirmi, adularmi, accettarmi com’ero senza mediazioni, a starmi accanto non perché lo desiderasse, ma per non sentirsi in colpa.

Sarebbe divertente poter concludere con la lista dei nomi, non tutti necessariamente di genere maschile, che mi vengono in mente, molto, molto divertente, ma purtroppo non si può. Proverò a farne un elenco privatamente: se vi fischieranno le orecchie sapremo entrambi che ne fate parte e potrete ritenetevi destinatari della richiesta di scuse di cui sopra, nella speranza della lieta eventualità di rincontrarci, con rinnovati auspici di un rapporto diverso, questa volta sì, veramente franco.

E per quanto questo post voglia rappresentare un universale messaggio di riconciliazione, con se stessi e con gli altri, per quel che me ne cale e a dimostrazione di un autentico passaggio ad una più liberale forma d’amore, quand’anche non vi riconosciate, non condividiate ciò che ho scritto o non leggiate affatto, spero non vi dispiaccia se alla fine, penso, con buona pace mia e vostra sopravvivrò anche a questo.

La resistenza del maschio e i miei mutanti

•ottobre 4, 2015 • Lascia un commento

Fdl

La resistenza del maschio con me al Festival della letteratura di Mantova

Sappiate che alla fine l’autrice non li salverà, anche se tenta di capirli, anche se si sforza di dar loro una voce (perversione squisitamente femminile), anche se il titolo del libro tergiversa tendenziosamente e il proposito è quello di descriverli, di dar loro forma in qualche modo: no, Elisabetta Bucciarelli, nel finale, i maschi mutanti comunque li punisce, perché Ciò che è deciso si compie nonostante tutto.

E allora dov’è il tentativo di mediazione?, mi sono chiesta quando ho richiuso per l’ultima volta la quarta sul volume. E continuo a chiedermelo, perché certo non si può cambiare il mondo con un romanzo, ma si può tentare di sfruculiare l’intimo degli uomini e delle donne. E comunque lo consiglierei solo ad alcune, delle mie amiche. E lo farei leggere ai miei amici per carpirne la reazione.

Io so solo che Elisabetta Bucciarelli l’ho odiata, per tutta la durata della lettura: quando ho ritrovato le situazioni che ho vissuto, quando rivivendole ho provato dolore, ma soprattutto quando rientravo in me e rammentavo che a scriverle era stata una donna, come lo sono io, che senza astio né particolare pregiudizio e con un certo scientifico rigore di cronaca le ha ripercorse col pretesto della narrazione, il cui potere sta proprio nell’immediatezza dei fatti raccontati come schiaffi in faccia.

Togliamoci il pensiero: c’è un lui, M-arco (l’uomo con l’arma nel nome) e una lei: Effe (così la chiama, ma sono abbastanza sicura che in realtà il suo nome sia Chiara). Lei, a quanto pare, prova a farsi fuori; lui la soccorre.

Un classico: io ti salverò, direbbe mia zia che biasima le donne crocerossine, senza sapere che di sindrome ce n’è anche un’altra. Io la chiamo “del Principe Azzurro”, perché è vero che alcuni uomini non vogliono più farsi carico di nessuno, ma sanno perdere velocemente di vista questo e molti altri principi, quando si tratta di fare i supereroi. Come con le gatte morte, tempo fa mi divertii a farne una piece.

Tu prendi questo libro in mano, vai alla presentazione nell’ambito del Festival della Letteratura di Mantova, ti carichi a bestia e ti illudi che ci troverai la risposta a tutte le domande, quelle che ogni donna almeno una volta si è fatta nella vita: “why oh, why” la sequenza –Ti porto la luna-messaggini, messaggini, messaggini, telefonate hard-scopata megagalattica– deve sempre terminare con una sparizione? E ancora: perché prendo l’iniziativa io e va tutto alla grande, e poi non succede più niente? Perché mi ha illusa se voleva solo una serata di sesso? Perché passare lunghe settimane al telefono senza incontrarsi e procrastinando, traslando, posticipando e deferendo l’incontro? Faccio bene a chiarire quello che voglio? Mi sono avvicinata troppo? Devo nascondere le mie emozioni per non perderlo?

Ebbene, nel libro una vera e propria risposta non c’è. Avrei voluto scrivere questo post e portarlo nella top dei più condivisi al mondo in poche ore, contenendo il verbo da diffondere affinché nessuna donna dovesse più patire la fuga di qualche specie d’amore.

Ma non ce l’ho, e ne sono veramente dolente. In compenso, leggendolo, vi troverete una fine e plausibile descrizione del retroscena prudente dei silenzi e delle attese maschili, una truce disamina della pessima abitudine femminile di innamorarsi quando e solo se si viene scelte (a volte unicamente della quantità di amore che un uomo riesce a dimostrare), un vago dipinto di quello stato di contro-dipendenza in cui pensiamo che avere gli stessi desideri sia possibile, e la certezza, quella sì, che l’emancipazione femminile non è né una colpa, né la causa principale delle paure maschili, perché il terrore di essere incastrati si acquatta comunque dietro gli angoli delle loro menti, suggerendo continuamente con un sospiro da palcoscenico “Non farti fregare…!”. Ma a noi che ci frega, tanto anche il miglior mutante, alla fine, nel libro non si salva!

Che poi cosa cacchio sono queste paure è presto detto: paura delle aspettative femminili sulla loro esteriorità e sul loro Carattere, paura che una voglia un figlio, che voglia sistemarsi, di essere in coppia per compagnia o per consuetudine sociale, che ci si aspetti che adempiano alla loro funzione. Paura, in sostanza, di non essere amati ma idealizzati e ricostruiti come loro pensano una donna possa volerli.

Capito? Le donne non sono le uniche a vivere secolari momenti di disorientamento in quel tormentato e affascinante quanto ineluttabile cammino che è l’evoluzione. Questa sì, che è una grande rivelazione, e se state attenti, in queste pagine la troverete.

“Dimostramelo”, dice sempre la moglie di M-arco, Marta, nella sua dimensione, quando il marito le assicura di amarla. E giù con le richieste più lontane dai progetti di lui. Lì si capisce (ma non si giustificherà mai) perché un uomo vada a cercarsi altro, e nel caso più comune in cui quest’altro sia semplicemente un’altra, cosa in realtà lui voglia: nessun obbligo, autenticità, niente doveri, solo piacere.

Sapete, temo che non tutte le donne possano essere amanti, che sia nello stesso letto del marito o in quello di qualcun altro (in questo caso, forse, per fortuna). Sicuramente può esserlo Silvia, che nella vicenda è single e determinata a vivere le storie senza complicazioni, come una sorta di donna 2.0 che cerca solo di prendersi il meglio dalla vita (e che pure fa fatica a farsi capire, nelle relazioni…). Le altre si fanno domande, film mentali, venire crisi isteriche, di identità, di respirazione. Certo la Bucciarelli non le vuole tutte scopatrici seriali senza cuore, né tanto meno intravede inversioni di ruoli nella sfera di cristallo. Lei lancia un sasso, e io, tanto vale che lo confessi, l’ho assecondata.

Il suo non è un manuale di vita vero e proprio, è solo un aspetto della vicenda raccontato con mestiere. E devo dire che, giocando a guardare le cose da questo nuovo punto di vista, mi sono trovata straordinariamente bene. Nel bel mezzo di un dilemma sentimentale, infatti, ho chiuso gli occhi e mi sono buttata nel vuoto, in un crepaccio così imo che non ne vedevo il fondo. E non ho pensato che mi sarei rotta le ossa, che stavano approfittando di me, che non c’era nessuna contropartita convincente. Niente. Mi sono scaraventata. Ma l’ho fatto perché ne valeva la pena, solo perché ne valeva la pena. Forse solo per questo non mi sono fatta niente.

Lo so, è sconcertante. Che tu ne fossi consapevole o no, Buccia, in un certo senso il mondo l’hai cambiato. Ti accontenterai di averne convertita anche solo una? E soprattutto: l’effetto, sarà durevole? O il tuo è solo un meschino disegno per fondare una di quelle puerili sette di tuoi romanzi-dipendenti?

Io ti odio, non dimenticartelo. Anche se in verità poi ti amo. Ti amo come solo una donna può fare, perché è impossibile amare come amano le donne. E questo nessuno dei tuoi dannati libri lo potrà mai cambiare. E sappi che, dopo averti letto, ripercorrendo la carrellata dei mutanti, come li chiami tu, che hanno avuto la sorte e il privilegio di attraversare la mia vita, sono rimasta della mia convinzione: li ucciderei tutti, comunque tornando indietro li ucciderei ad uno ad uno, ma solo dopo avergli fatto davvero tanto tanto male.

Perché se lo meritavano. D’altronde questo lo sai, altrimenti, almeno tu, il tuo lo avresti salvato. 😉

#FestLet e altre storie

•settembre 27, 2015 • Lascia un commento

Mappa #FestLettSiete mai stati ad un incontro con l’autore in cui vi hanno regalato cotton fioc e guanti per lavare i piatti? Io si, e non finirò mai di dire quanto mi sia piaciuto. Non solo un po’di casalinghi in omaggio fanno sempre comodo, ma trovo di una modernità straordinaria il fatto che gli eventi culturali possano essere sponsorizzati, soprattutto se a farlo è un’azienda che (non me ne vogliano) non produce pannelli solari, nota, tra l’altro, la difficoltà di omaggiarne uno a ciascun convenuto. E come sempre parlano i numeri, anche attraverso le pagine del Sole 24 ORE, dove si legge che per l’80% Il Festival della Letteratura di Mantova si ripaga con fondi privati e biglietteria.
La città è una bomboniera confezionata dall’abbraccio amorevole del Mincio. La rassegna, se possibile, ne esalta la personalità, occupando gli spazi con ospitalità e buongusto, nel senso proprio del buon gusto per la lettura, senza dimenticare sevizi (navette, parcheggi gratuiti, bagni pubblici) e la possibilità di unire alla passione per le lettere quella per il turismo.

È il lettore, infatti, il centro della kermesse, piuttosto che quello che si vorrebbe egli leggesse. Il #FestLet (che hashtag del cavolo, però!) è una specie di luogo miracoloso nel quale con cordialità inconsueta si porgono ai fruitori pagine più o meno edite, argomenti originali di discussione, spazi di vero confronto e puro divertimento, e che ciò corrisponda al vero è dimostrato dal fatto che, non solo ne sto scrivendo entusiasta nonostante mi sia stato negato il pass dall’ufficio stampa (ebbene sì, ho pagato per ogni singolo evento di cui vi racconto, tranne per quelli ad ingresso libero, naturalmente), per quanto gli stessi editori, se non quando presenti alle presentazioni degli scrittori “di punta”, hanno avuto in acconce aree mercantili l’unica griglia di cielo in cui sventolare le loro pubblicazioni in vendita. Per non parlare del fatto che la selezione delle case editrici rimane spudoratamente nell’approcciabilissima dimensione della misura d’uomo: niente pippette con la penna in mano che vendono miliardi di copie alla prima uscita, pochi claim, sobrietà di assoluto livello, vivaci spunti per il contraddittorio tra chi scrive e chi legge.

Una delle cose più divertenti? Le translation slam: vere e proprie competizioni che hanno visto i migliori traduttori professionisti internazionali alle prese con testi in lingua da riportare in italiano e viceversa. Nello specifico, il mio rinomato sedere mi ha consentito di assistere al primo esperimento effettuato su un romanzo italiano, di cui Shaun Whiteside e Isobel Butters avevano ricevuto precedentemente un brano, confrontandosi coraggiosamente poi in pubblico (in presenza dell’autore!) con le rispettive traduzioni e introducendoci nelle mille imprevedibili vite che un libro può rivivere a seconda della personalità di chi lo trasduce (no-no, c’è scritto proprio trasduce).
Né mai avrei creduto che il gotico italiano (categoria letteraria a me pressoché ignota, grazie anche, credo, alla balorda abitudine di tralasciarlo nei programmi scolastici) potesse provocarmi sogghigni nei piacevoli e distensivi appuntamenti a Piazza Lega Lombarda, nei giardini di palazzo Ducale, con la Compagnia della Lettura: mi sono potuta concedere, per questioni di tempo, soltanto Alberta Bassi, Isa Bonfà e Giovanna Granchelli nel reading de Il morto resuscitato di Emma Perodi (nell’800 le donne scrivevano di horror, qualcuno rabbrividirebbe già solo a questo pensiero) ma mi è bastato per innamorarmi dell’idea. Sulla stella linea d’onda anche la vicina biblioteca gotica nell’Atrio degli arcieri: più di trecento titoli in tomi e scansioni digitali consultabili liberamente, grazie alla collaborazione con i sistemi bibliotecari partecipanti.

Ma ce n’era per tutti i gusti. I miei, limati dalla limitata disponibilità di posti e dall’assurdo ma necessario meccanismo della prenotazione on-line, mi hanno diretto verso il composto Carlo Lucarelli, alle prese con la presentazione del noirista nordico ante litteram Peter May, nonché ad un incontro col mitico Edgar Morin, che ho scoperto aver forse già dato fondo, alla sua considerevole età, a tutte le idee e le riflessioni che il mondo potesse pretendere da un filosofo. Ma temo di aver contribuito io, ad essermi persa i suoi periodi migliori. A saperlo sarei rimasta a sentire (gratis), nella spettacolare Piazza Sordello, Marco Malvaldi che disquisiva amabilmente del satirista Giorgio Marchetti, scomparso purtroppo nel 2014, e del suo adorabile Borzacchini, edito manco a dirlo da Ponte alle Grazie. Per non parlare del filone “accenti” che ha dato luogo a Stories that must be told, grazie alle quali ho potuto ascoltare lo scrittore Okey Ndibe.
Nel vacuum dell’overbooking che mi ha impedito, per esempio, di seguire Paolo Nori, ho allora deciso di affrontare uno dei misteri per me più impenetrabili dell’emisfero commerciale: Maurizio De Giovanni, che in un gremitissimo cortile di Palazzo San Sebastiano ha intrattenuto per oltre un’ora il pubblico delirante, il quale vantava di aver letto tutti e dico proprio tutti i suoi libri, chiedendo nelle successive domande quando ne usciranno di altri (ahimè, saranno accontentati) e ammirandolo ancor di più per la sua indiscutibile dialettica che, se da un lato contrasta con l’ombra (che lui vorrebbe essere noir) dei toni dei suoi romanzi, dall’altra spiega il motivo, forse, del suo popolarissimo (forse) commissario vattelappesca. Ma quando ha letto un brano del suo libro, nessun autore dovrebbe farlo coi propri romanzi, si sa, la percezione infantile e banale che me ne è derivata mi ha spinto ancora una volta a sfogliarne alcune pagine dalle copie in vendita sul bancariello all’uscita, convincendomi che, definitivamente no, non amo il suo genere. Non il suo genere letterario: il suo genere di scrittura.
E vabbè, ce ne faremo una ragione.

Per fortuna, a dare un tocco, e che tocco, di internazionalità alla piccola grande kermesse ci ha pensato l’invito al Nobel Vargas Llosa (a proposito, mo’ mi scordavo di dirvi che ho visto in anteprima italiana al festival Gabo, uno spettacolare lungometraggio di Justin Webster su Gabriel Garcìa Màrquez) e per non farsi mancare di coprire un po’ tutti i generi si è naturalmente parlato anche di libri per cucina, sponsorizzati da Grana Padano, ma tant’è.

Le cose che mi porto a casa, oltre che per questioni sentimentali, da sbalordita abitante della piccola provincia del centro-sud? L’encomiabile contaminazione col teatro, anche in termini di spazi: all’Ariston, dove ho sbavato ignominiosamente assistendo alla performance della divina Lella Costa, impegnata nella suggestiva e non facile lettura di alcuni atti notarili di epoca medievale e rinascimentale, con i quali si disponeva e gestiva le doti delle giovani nubende venete e del valore assolutamente nullo che gli stessi atti attribuivano ai danni morali che ad esse ne derivavano. Un pretesto come un altro per dire dov’eravamo e dove siamo rimasti.
E ce n’è un’altra di contaminazione, un’opportunità che ogni città universitaria dovrebbe pretendere da se stessa (ATTENZIONE: il Sistema Universitario a Mantova è gestito da una FONDAZIONE): è stato proprio nell’Aula Magna “Isabella d’Este” che ho assistito al confronto tra Elisabetta Bucciarelli, autrice de La resistenza del maschio (di cui vi parlerò in apposito post, ❤ ) e Paolo Colagrande (Senti le rane) col pretesto della presunta differenza tra scrittura al femminile e al maschile.

È qui che ho scoperto quanto una ditta di prodotti per la cura della persona e della casa possa essere generosa. E non pensiate che i gadget siano di esclusiva pertinenza del pubblico da irretire. L’omaggio lo hanno avuto anche gli autori, e pure in confezione deluxe.

Not elementary J. Holmes

•agosto 7, 2014 • Lascia un commento

I don’t want to be one of those people who go to a piano jazz concert for the first time in their life, trying to seem enthusiastic about an experience of which they’re able to judge very few and shouting to the world how much great it was the performer at issue.

Joel Holmes's gig in Benevento (I) on the 3rd of August 2014

Joel Holmes’s gig in Benevento (I) on the 3rd of August 2014

All I Know about Jazz is what I listened when I was a baby from my father’s LPs. But when I assisted to Joel Holmes’ gig here in Benevento, my little town in the south of Italy, inside the Festival “I concerti della bottega” (the Small Shops’s concerts) it seemed to me like going back to those days on the coach, while Miles playing his trumpet, wondering if I would have ever been so happy again in dad’s company.

Joel is a pianist, actually, but the point is that he made me remember how beautiful Jazz can be when it’s played simply and passionally, without any of those unclean twisting that every time leave me with the same anguishing question: was it me to having not understood for the umpteenth time or this was the ugliest concert ever played?

I couldn’t see his hands from the back places so I became more and more closer to the stage, thanks to the bystanders distraction: those hands were charged through the rhythmical so as ecstatic through the sensitive passages and all the stroll was leaded by Joel’s happy sympathy. I was searching for my licorice and found my handkerchief indeed. And fortunately this was exactly while he was playing “E la chiamano estate”, such as one of his best reinterpretations.
Huge, wonderful, supreme. The best trip I’ve ever had.

If you don’t trust Jazz anymore, try Joel Holmes first: you’ll be rewarded.

Bianca Bari e le sette Sgagliozze

•novembre 3, 2013 • Lascia un commento

La domanda è: “vuoi fermarti per la solita cena o ti portiamo in giro per un tour a conoscere la vera Bari?”. È un bivio, dalla scelta dipende la percezione che vi resterà della città e cosa ne rimarrà dentro di voi: un “porto di mare”, con tutte le accezioni positive e negative che questo modo di dire evoca, oppure Bari vecchia e le sue rivelazioni.

Dal Palace Hotel, già ritrovo di un nutrito pubblico internazionale che fa shopping, va al teatro e visita il centro, all’Arco Basso, fucina instancabile delle mitologiche Orecchiette, il passo è breve. È qui che la mattina un piccolo esercito di mani leste amalgama, sfoglia e incava la pasta che sfama i golosi di tutt’Italia e gli emigrati pugliesi di tutto il mondo. Basta ordinargliele, infatti, per poi omaggiarle a visitatori, fornitori, clienti, o semplicemente mangiarle a casa con il divino ragù (basta scorrere tra i filmati di youtube per trovare ventordicimila documentari che ne testimoniano la potenza socio-economica, tra cui questo, con la regia di Ardalan Nabavinejad, in cui le donne raccontano con orgoglio la vicinanza e la forte interrelazione personale tra gli abitanti del quartiere).

Step numero 2: le sgagliozze. Non si penserebbe mai che in una città di mare si possa mangiare polenta fritta, ma è così. Meraviglioso assaporare le salatissime e unte fette di questa specialità, insaporita dal genuino passaggio di mano (nel senso che costei le tocca) tra

l’indigena massaia friggitrice e voi, ma fa molto tipico anche questo. Sarà l’effetto allucinogeno del tradizionale snack, ma quella che vi si parerà davanti è una città bianca, pulita, quasi profumata (ogni casalinga si premura di pulire il tratto di strada di pertinenza di casa sua),

inframmezzata dai tipici campanili altissimi pugliesi e le piazze antistanti le chiese, tra cui quella di San Nicola, dove si consuma tuttora l’antico rito di recarsi presso la Colonna nella Cripta, attualmente recintata ma fino al 2007 oggetto di un triplo giro intorno, che secondo la tradizione aiuterebbe le zitelle a maritarsi.

Si procede poi verso il lungomare, percorribile su un lastricato, il quale da un lato affaccia sul porto e dall’altro disegna il perimetro delle case alte che danno sul mare, anch’esse bianchissime, e lungo questo cammino è possibile affacciarsi sulle strade interne del centro storico. Sono illuminate, frequentate, invitanti.

Altra breve sosta mangereccia al porto con una focaccia al pomodoro e prosciutto, accompagnata con birra rigorosamente Peroni, da bere come un vero barese: col mignolo alzato quando si porta il collo della bottiglia alla bocca.Bari vecchia 2

E poi via, verso il Teatro Petruzzelli (vederlo dopo averlo sentito nominare tante volte può essere un’altra avvincente emozione) e un breve salto in quella parte del quartiere Murat dove ci sono i negozi più belli e perciò visitati dai turisti durante le soste delle crociere. Pare che lo stesso Gioacchino avesse provveduto a disporre le attività commerciali in posizione tale che ognuno potesse controllare i prezzi dei dirimpettai, stabilendo di fatto un regime di libera concorrenza… vigilata.

Al rientro in albergo, il pensiero corre agli anni ottanta e novanta, durante i quali certamente una simile passeggiata non avrebbe potuto avvenire con tanta serenità a causa del degrado in cui la città era sprofondata. E corre anche ad altre città, prima tra tutte Napoli, dove in molti casi questo non è tutt’ora possibile per lo stesso motivo.

Ma questa testimonianza vuole rappresentare un moto di speranza. Bari può sorprendere anche i più scettici, grazie a taluni miracolosi esiti della riqualificazione. Se è stato possibile rivederla così, e se si assume questo fatto ad emblema, magari accadrà anche nel resto del nostro Paese.bari 007