MART delle mie brame

Mart di Rovereto: padiglione d'ingresso.

La prima volta che ho visto fotografare un quadro col cellulare è stato all’Ermitage di San Pietroburgo. Finito l’evento che organizzava la mia società, con 39 di febbre e completamente afona, a 15 minuti dalla chiusura, riuscii ad entrare ed interpretare indicazioni in cirillico verso Monet e compagni, che ammirai per la seconda volta dopo Roma, anni prima. E feci appena in tempo a raggiungere Lo stagno. E come sempre davanti a un suo dipinto, piansi. Fu lì che sentii il click con il quale una giapponesina si immortalava nell’immortalità di uno dei MIEI quadri. Inorridii.

Non perdo mai occasione: quando ho una fiera, appuntamenti di lavoro, una trasferta, ci infilo sempre un’esposizione lì vicino. È così che ho potuto vedere Escher, Frida, Mirò e una miriade di altri. Poi c’è Rovereto, col suo Mart. Lessi dell’inaugurazione su un quotidiano, La Repubblica, mi pare. Ero giovane e capricciosa, nonché una discreta frusciatrice di ciglia. Il mio allora accompagnatore rispolverò la sua fiammante Mercedes e in un battibaleno ci ritrovammo sull’Autostrada del Brennero che mi condusse al tempio delle rocambolesche avventure figurative e, che dire, vi ci passai dentro una giornata intera. L’altare di Depero era finalmente stato elevato: fagocitai ogni cartolina, ogni stampa, ogni tubo, ogni simulacro e non uscii prima di essermi assicurata di aver incisa in corpo anche la forma dell’ultimo interruttore della luce.

Ci sono tornata giorni fa, ripromettendomi che ne avrei ricambiato l’accoglienza seppur con un breve post (che nelle intenzioni avrebbe voluto essere più stringato e focalizzato, arduo compito per una bipolare), un articolo nel quale avrei tentato di riportare la potenza affrescante del Realismo (traccia che ho quindi cominciato a trascinarmi dietro per recuperare quello che la scuola non ha saputo in nessun modo insegnarmi di un fondamentale periodo artistico e letterario dell’Ottocento) nella mostra di Courbet e dei suoi seducenti colleghi trentini (uno su tutti Bartolomeo Bezzi) così come la destabilizzante visione dell’attualità di Beppe Devalle, ma soprattutto le collezioni, le collezioni…
Chi l’avrebbe mai detto che un giorno avrei potuto avvicinarmi ad un quadro futurista senza rigurgitare al pensiero di Mussolini o della misoginia permeante già dal momento della stesura del Manifesto? Avveniristico e sconcertante, sovvertitore e a suo modo reazionario, misconosciuto per colpa del blasonato Marinetti, il Futurismo mi ha finalmente colta in un momento di debolezza, regalandomi la rivelazione che l’emozione può essere anche altro che un’”Impression”.
Intanto un selfie me lo sono tirato anch’io, tie’, vergognandomi come una ladra. Col cavolo, che lo farò vedere a qualcuno. In primo piano io, con la solita faccia gonfiata dagli automatismi digitali della fotocamera, sul retro due manichini allestiti da de Chirico. Quante cose NON si possono capire del metafisico Giorgio non avendone mai visto un quadro. La sua ironia, l’assoluta distanza da parametri di misurazione di ogni tipo di dimensione, l’abilità nelle crasi tra passato e presente, la sua dissacrante sacralità.

Non so e non saprò mai quante cose ho tralasciato di raccontare tra gli “oltre 20.000 capolavori” del mio museo preferito, non sono né una critica né tantomeno un’esperta d’arte. Quanti nomi illustri mi sarò lasciata sfuggire, quante cose dovrò tornare a conoscere. Ma lo farò, certo che lo farò.
Per cui mi sento di dirvi: armatevi di curiosità e, amanti o meno dell’arte, soprattutto quella contemporanea, andateci anche voi. È ergonomico e bello, grande e caldo, incredibilmente vicino, se solo lo si vuole. Vi farà sentire che è vero, che in Europa e nel Mondo ci siamo anche noi. Sarà il vostro rimedio infallibile contro la fobia da declino moderno.

~ di Gli stregatti di Maria Elena Napodano su febbraio 9, 2016.

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